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Il Re Leone: venticinque anni dopo

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Il Re Leone: perfetta fusione tra Shakespeare, animazione, scenari intramontabili e musiche indimenticabili. Campione di incassi nel 1994, si è portato a casa due Oscar e tre Golden Globe e, nel corso degli anni, ha visto anche la creazione di un musical di successo a Broadway vincitore di sei Tony Awards, festival dedicati nei parchi Disney e riedizioni al cinema, tra cui anche la conversione 3D nel 2011. Per non parlare poi del sequel, del prequel, delle serie TV, del merchandising e altro ancora. In breve, il Re Leone è sicuramente uno dei lungometraggi di animazione con più successo di sempre, una vera e propria gemma della produzione Disney: come tale, non poteva che finire nella carrellata di remake che stanno invadendo i cinema da ormai qualche anno, ricadendo negli “investimenti sicuri”, sebbene qualche flop ci sia stato.

L’estate 2019 ha dunque visto approdare sugli schermi il nuovo Re Leone “rifacimento fotorealistico di animazione computerizzata”, per dirla con le parole di Wikipedia, e firmata da Jon Favreau che aveva già proposto un bel remake de Il Libro della Giungla (2016).
Il primo trailer, uscito un anno prima, aveva già fatto leva sugli animi, creando aspettative altissime.

Ma è sempre bene ricordare che ogni remake per quanto fedele all’originale ha le sue differenze, se non altro perché si ha la possibilità di raccontare di nuovo una storia con la propria voce, magari soffermandosi su certi tratti o approfondendone altri.

Quindi da una parte c’è l’aspettativa altissima, che fonda le sue radici nei ricordi d’infanzia e nel più sfrenato amarcord, dall’altra c’è il timore che qualcosa sia cambiato e non necessariamente in meglio. Anzi.

Ma andiamo per gradi.

Sul comparto animazione non c’è molto da dire. Gli animali sono estremamente realistici, tanto che a più riprese sembra di vedere un documentario e non un film d’animazione. Incanta e lascia spesso a bocca aperta. Per chi ha storto il naso nel vedere animali realistici parlanti… Comprensibile, ma dopo un po’ non ci si fa più caso e la storia travolge.

Scene Rivisitate o Aggiunte

Molte scene sono state rivisitate, in linea generale per il meglio.
Alcune sono state rielaborate per creare un maggiore pathos.  Un esempio lampante è il topolino che viene catturato da Scar all’inizio. In questa versione il viaggio dell’animaletto viene seguito in una sequenza lunga abbastanza da creare simpatia e tenerezza, tant’è che quando si trova sul fiore in un momento dolcissimo e il leone compare dall’oscurità, si mozza il fiato. Insomma, se già Scar era cattivo fuorimisura, con questa premessa più dilatata rispetto all’originale lo spettatore lo percepisce in dimensione maggiore. Lo definirei un perfetto esempio di storytelling.

Anche il rapporto tra Scar e le Iene è stato riveduto e corretto, in una maniera più attenta e che personalmente ho preferito. Nella versione del 1994 abbiamo tre iene capeggiate da Whoopi Goldberg una scaltra Shenzi, e vengono già presentate come i galoppini di Scar. C’è, dunque, un legame a monte. Nel remake innanzitutto le iene non sono tre: quando Simba e Nala finiscono nel cimitero degli elefanti le iene sono molto numerose e questo crea una maggiore tensione. Lo spettatore infatti si aspettava il trio agguerrito ma un po’ pasticcione, non un branco incattivito. La gerarchia di stampo matriarcale è ben marcata, tanto che basta l’entrata in scena di Shenzi per far tremare tutti gli altri. È lei che da ordini, è lei che comanda. È lei che, all’arrivo di Scar, decide di allearsi con lui mettendo a disposizione il proprio branco. In tutto questo, l’unica nota stonata è quella di Sarò Re. Nessuno si aspettava una parata di iene da far invidia a un regime dittatoriale, o iene che suonano casse toraciche a ritmo di musica, ma nemmeno l’impoverimento totale che c’è stato e che ha fatto perdere senso alla canzone e forza alla scena tutta.

Nota di merito al desiderio di Scar di avere Sarabi come sua regina. Scar capisce che gli manca qualcosa per affermarsi effettivamente come Re e avere il sostegno delle leonesse e quel qualcosa è proprio la vedova di Mufasa. Si lascia chiaramente a intendere, in ogni caso, la predilezione che il leone aveva per Sarabi, accusata da Scar stesso di aver scelto, ai tempi, Mufasa e non lui. L’ho trovato un approfondimento molto interessante, un risvolto di gelosia e desiderio molto umano più da pubblico adulto che di bambini. Un approfondimento tuttavia non nuovo, ma un’evoluzione della scena eliminata del 1994 in cui Scar, per essere un re completo, sceglieva invece Nala come sua regina e madre dei suoi cuccioli in una scena viscida e con implicazioni fin troppo oscure.

Nel musical questa scena, pur sempre shockante, è stata ripresa e rielaborata in “The Madness of King Scar” che potete sentire qui.

Parlando di Nala, vi è la scena aggiunta della sua fuga. Un momento nel film di grande tensione, in cui vediamo delle iene sentinella che si muovono nel buio e lo stesso Scar che fiuta la sua presenza e le da la caccia. Una sequenza al cardiopalma, risolta da uno Zazu che per quanto non sia d’accordo con la leonessa, le permette di fuggire.
E’ un momento diverso, d’azione rispetto a come ci era stato proposto nel musical, in cui Nala prende la difficile decisione di lasciare il proprio branco e la Rupe dei Re. La sua canzone, Shadowland, porta con sé tutta la sofferenza per le condizioni della sua terra e per il suo distacco, in un pezzo cupo ma potente, triste ma pieno di coraggio.

Passando a momenti più scanzonati, è stata rivista un po’ anche tutta la parte di Simba in compagnia di Timon e Pumbaa, a cui si sono aggiunti anche tutti gli animali della foresta. Ampliata, arricchita, con la filosofia dell’Hakuna Matata, e la visione della vita non come un cerchio, ma come una linea retta dove ognuno pensa solo a se stesso e dove le azioni di uno non ricadono minimamente sulle sorti altrui. Il tutto spiegato mentre i gesti di uno o dell’altro personaggio distruggono un formicaio che rilascia insetti, permettendo -ironicamente- a tutti di mangiare. Formicaio che, tra l’altro, sembra la Rupe dei Re dei randagi e degli emarginati.

Un’altra scena che smentisce la visione di Timon e Pumbaa, è sicuramente quella del ciuffo della criniera di Simba. Nell’originale Simba, atterrito dopo il confronto sulle stelle con i suoi due amici (o genitori adottivi), si lascia cadere pesantemente a terra. Si alza una polvere che vola fino ad arrivare da Rafiki, che capisce che il leone è vivo e non morto come tutti credono.
In questa versione Simba perde un ciuffetto di criniera. Questo ciuffo vola, diventa l’appoggio di una libellula sull’acqua, viene preso da un uccellino per il nido ma poi scartato, finché non viene mangiato da una giraffa per sbaglio. Quando sembra tutto perduto, eccolo che ricompare avvolto nella palla di uno stercorario -palla che si rompe, liberandolo. Viene catturato da turbini di vento e finalmente finisce nelle mani del mandrillo. È una sequenza lunga, articolata, che urla al mondo che il cerchio della vita esiste, che ogni essere vivente è collegato, ogni cosa interconnessa. Applausi.

E i posti all’ombra, allora?

Non tutto il film è illuminato dal sole. Purtroppo ha i suoi difetti che, almeno nella versione italiana, hanno pesato molto.

Il primo problema è indiscutibilmente legato al doppiaggio. Abbiamo il brutto vizio di affidare a personaggi di punta voci di VIP che non ricevono la giusta formazione per fare quello che fanno. Mengoni ed Elisa sono sicuramente un’ottima scelta per le parti cantate, ma per i dialoghi mancano di carisma, intenzione, potenza e, a volte, anche di dizione. Un qualsiasi bambino o bambina che nel 1994 giocava al Re Leone recitando i dialoghi a memoria, avrebbe fatto sicuramente meglio. Infelice, a mio avviso, anche la scelta di Massimo Popolizio per Scar. Ci aveva già rovinato Voldemort, non c’era bisogno che mettesse il suo zampino anche sul leone più cattivo di sempre… Con il timore che salisse sulla Rupe dei Re e urlasse un “Avada Kedavra!” da sanguinamento delle orecchie.
Purtroppo ci sono state anche delle variazioni nei dialoghi, spesso facendoli risultare troppo macchinosi e poco verosimili (Simba e Nala prima di Voglio diventar presto un re, per dirne una), o portatori di grande disagio (“Leonesse, all’attacco!”) o mancando certe parti che l’appassionato si aspetta. Una su tutte, lo spirito di Mufasa che NON dice “Simba, mi hai dimenticato”. Una frase semplice, ma in grado di mortificare grandi e piccini. Nulla da dire tuttavia su Luca Ward: era una delle garanzie del film.

Un altro disagio è stato Simba, ma qua non hanno colpa i doppiatori (Mengoni solo in parte). L’inazione fa parte di lui, del resto è l’Amleto della storia, ma in questa versione risulta a mio avviso un debosciato. Fa agguati alle farfalle, vuole mangiare gomito a gomito con le prede dimenticando come niente tutti gli insegnamenti di Mufasa. Va bene lasciarsi alle spalle il passato, ma nemmeno diventare un inetto totale. Nella versione originale Simba mangia sì gli insetti, ma rimane il solito leoncino avventuroso e arrogante: rimane sempre il Re, anche quando si scorda di esserlo.

Il comparto canzoni merita un discorso a parte. Ho già detto di Sarò Re, ma anche il Cerchio della Vita ha lasciato un po’ così. Forse perché eravamo abituati a Ivana Spagna, ma questa versione con un accento marcato non è stata il massimo. In generale inoltre, le canzoni sono state raddolcite, più modulate, perdendo in parte la potenza evocativa che caratterizza questa colonna sonora da premio Oscar.
Tuttavia in una delle scene più iconiche del film, la canzone originale è stata cambiata con una traccia nuova che ha creato un cratere di delusione.
Simba torna e deve tornare a casa con Busa, non con una qualche musica che non è nemmeno in accordo con lo stile delle altre. Caso chiuso.

Quel che rimane

Non c’è molto altro da dire. Plauso speciale va ai personaggi secondari, in primis Rafiki. È più solenne, più mistico, coi suoi dialoghi un po’ in italiano e un po’ in un africano senza sottotitoli, ad amplificare il suo mistero. Subito dopo di lui arriva Zazu, petulante ma di grandissimo coraggio. Timon e Pumbaa si difendono egregiamente, anche a doppiatori (Tonino Accolla rimarrai sempre il numero uno).

In linea di massima è un bel film. Non è l’originale, non lo sarà mai, quindi va preso per quello che è, ovvero un’altra versione della storia che tutti amiamo. Era necessario? Probabilmente no, ma a distanza di venticinque anni entrare al cinema e trovarsi l’alba africana che irrompe con “Nants ingonyama” ( o “Nazivegna” per gli affezionati) ha fatto comunque venire la pelle d’oca, e la morte di Mufasa è stata di nuovo un trauma.

Chiudo lasciando una delle tracce più belle e struggenti del film, firmata dall’immenso Hans Zimmer.

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Rebecca

Scrivo storie di posti lontani, anime avventurose, e segreti da cercare. A volte scrivo anche di come si fa a raccontare, o almeno... ci provo. Res e Gilda mi hanno adottato, e devo dire che mi trovo bene.

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